Il pianeta si salva partendo dall’Italia


di Antonello Pasini, tratto da La Repubblica, 30 gennaio 2020

Emerge con sempre maggior chiarezza e forza che l?Italia è chiamata a un ruolo guida nella regione mediterranea e che questa, a sua volta, rappresenta un hotspot cruciale della questione climatica globale. Uno studio multidimensionale – non solo su come cambia il clima ma anche su quali saranno le conseguenze – condotto da 85 scienziati di 20 paesi mediterranei, e divulgato in anteprima alla fine del 2019, traccia un bilancio e proiezioni inquietati. La nostra regione si sta riscaldando il 20% più rapidamente della media, sono apparse più di 700 specie animali aliene, diventano endemici i megaincendi e il 90% delle specie ittiche è sul punto di collasso. Entro il 2040 si prevede che oltre 250 milioni di abitanti del Mediterraneo saranno vittime di scarsità idrica. Si prevede, poi, che il livello del nostro mare possa aumentare di 20 cm entro il 2050, che possono sembrare pochi, ma salinizzerebbero il delta del Nilo, sconvolgendo la sussistenza di milioni di persone. La lista sarebbe lunga, ma non dice tutto. La politica ha compreso che qui saltano le basi profonde di una già delicata convivenza.

Limitarsi a prendere le misure dei singoli impatti diretti vuol di re non comprendere che è in gioco una posta cruciale: ‘identità e l’unità dell’Europa e una relazione costruttiva entro il più naturale ambito di internazionalizzazione dell’economia italiana, la sponda sud del Mediterraneo e oltre essa l’Africa. A guardare il planisfero ci si accorge che l’idea di Europa – come continente a se stante – rappresenta un’anomalia. Usando i criteri di delimitazione dei continenti applicati per tutti gli altri noi non dovremmo esistere: siamo solo una piccola appendice dell’Asia. Eppure continuiamo a sentirci u continente a parte, anzi forse – con quel po’ di presunzione che una volta si chiamava eurocentrismo – ci sentiamo IL continente, il “vecchio” continente. Cosa ci distingue? Una certa unità culturale, persino fisionomica, un senso di comunità nella diversità.

Pochi si interrogano sulle radici di questa unità che non si basa sull’isolamento del proprio territorio, ma qualcuno l’ha fatto: a cominciare da Montesquieu che vedeva l’identità europea come u prodotto dell’eccezione climatica che ha benedetto l’Europa dalla fine dell’ultima glaciazione circa 10.000 anni fa. Se Montesquieu aveva ragione – e con criteri contemporanei possiamo confermare che aveva visto giusto –significa che il clima dell’Europa ha giocato un ruolo determinante nel forgiare la nostra identità e nel definire i nostri interessi. Anche la sponda sud del Mediterraneo ha beneficiato di una sua favorevole eccezionalità climatica che ha contribuito a distinguerne l’identità dal resto dell’Africa. Queste due eccezioni favorevoli sono interconnesse dall’azione stabilizzante del mare che condividiamo, e hanno creato le condizioni della rivoluzione agricola: la strutturazione sociale da cui ha preso le mosse l’organizzazione umana in campagne coltivate e centri urbani, che ancora è la nostra. E’ successo attorno al Mediterraneo: fra Europa, Anatolia, Fenicia, perché un clima stabile e prevedibile è essenziale per pianificare i raccolti.

Sennonché, l’inerzia stabilizzante di u vasto bacino d’acqua come il Mediterraneo non basta più senza l’aiuto del coprotagonista della nostra particolare fortuna climatica, il dolce e regolare anticiclone delle Azzorre. Pochi anni fa i meteo televisivi menzionavano a ogni piè sospinto questo anticiclone come annunciatore di bel tempo: ma esso appare sempre meno sull’area mediterranea e viene estromesso dagli anticicloni africani, che sconfinano sempre più prepotentemente. In pratica, cominciamo a condividere u nuovo tipo di clima con paesi della sponda sud del Mediterraneo, mentre a nord delle Alpi crescono altre modifiche che divaricano il clima mitteleuropeo dal nostro. Ma se concordiamo con Montesquieu – il clima è n fattore determinante nel comporre interessi e identità dei popoli – non è solo una questione di piogge e temperature. In pratica, per l’Italia, significa che alla nostra identità europea inizia a sovrapporsi una comunione di interessi con chi condivide l’anticiclone africano, mentre rischiamo di distanziarci da alcune prospettive che finora ci ancoravano saldamente all’Europa.

Non è solo una questione di venti e piogge e nemmeno dottamente antropologica: si tratta di economia, commercio e geopolitica. Ad esempio, con il riscaldamento dell’Artico e il restringimento dei ghiacci si stanno liberando alcune rotte commerciali marittime polari – i mitici passaggi a nord-est e a nord-ovest – che rischiano di privare i nostri porti, o il canale di Suez, di moltissimo traffico. Dovremo fare i conti con la migrazione a nord di alcuni vitigni che per noi sono identitari (e una gran bella fonte di proventi). Se non stiamo attenti questo rischia di spaccare l’integrazione europea i due gruppi con interessi divergenti. Ma non ci sono solo le sottrazioni, ci sono anche le aggiunte. Qualcosa perdiamo perché migra a nord, ma qualcosa guadagniamo in provenienza da sud, condividendola con altri popoli in una nuova comunità di interessi. Ad esempio la comunità “forestale” – coloro che per passione o denaro tutelano la vegetazione – sta sperimentando un’integrazione e un’intensificazione della collaborazione fra le due sponde del Mediterraneo.

C’è sempre stata una cooperazione forestale globale per l’ecosistema planetario, ma in questo nuovo club mediterraneo, si sta intensificando; e non è solo frutto di una crescente consapevolezza ecologica: la vegetazione originaria della sponda meridionale del Mare Nostrum è l’unica che potrà permanere produttiva sulla sponda nord entro pochi anni e quindi salvare la funzionalità di intere economie nazionali.